Articolo di Elena Postacchini
L’interpretazione nelle opere pittoriche e scultoree è un fattore che si innesca naturalmente e che per alcuni è necessario. In quanto esseri umani, dare un senso all’irrazionale è sempre stato il motore della conoscenza. Ma questo può diventare un limite quando davanti ad un’opera d’arte, specialmente contemporanea, razionalmente non abbiamo delle risposte al “caos” e quindi non possiamo soddisfare la nostra naturale propensione alla curiosità. Interpretare è anche creare un ragionamento logico in qualcosa che, molto spesso, non è stato creato per averlo. L’interpretazione è il filo sottile che unisce lo spettatore al creatore dal pensiero ignoto. E davanti all’ignoto l’unico modo che abbiamo per creare un senso nelle cose è aggrapparsi al conosciuto, alle nozioni che già abbiamo appreso. Quindi leghiamo il significato di un’opera al contesto storico, alla corrente di riferimento dell’artista, a dei simboli ricorrenti, alla spiegazione data da un “esperto” e che quindi dovrebbe essere plausibile, o più semplicemente al nostro stato d’animo. Ma siamo realmente sicuri che esista un messaggio intrinseco o che sia quello che immaginiamo? Che esso sia uno e non infiniti? Siamo certi che la mente pensante che si cela dietro una pennellata, abbia voluto davvero trasmettere qualcosa di psicologicamente complesso e che non sia frutto di atto di “banalità”?

Acciaio plasmato, 2003, acciaio e scorie, 100 x 70 cm.
In Giovanni Beato, Risorgenze sculture e pitture 1970-2004
La testimonianza diretta dell’artista è a noi quasi sempre inaccessibile e quando la si ha a disposizione, è magari lo stesso artista a non voler risolvere il mistero. Questo è evidente se si pensa per esempio a René François Ghislain Magritte, il quale rifiutò sempre una lettura psicoanalitica delle sue opere, negando di chiarire il senso e il significato di esse.
L’interpretazione delle opere è quindi carente quasi sempre della conoscenza di un tassello essenziale: gli enigmi della mente umana che le crea. A questo proposito, ho avuto l’opportunità di entrare in punta di piedi in una di queste menti. Il suo nome è Giovanni Beato nato nel 1948 a Montelparo, piccolo comune in provincia di Fermo, nelle Marche. Nella sua vita ha realizzato e continua a realizzare opere brillanti. Il suo tocco distintivo è stato colto e apprezzato da molti, tra cui Pericle Fazzini, Enrico Crispolti, Nino Franchina, Giovanna dalla Chiesa, Anita Buy Fazzini. Di Beato è stato evidenziato il talento nel figurativo, il particolare ritmo vivo e definitivo senza fronzoli delle sculture, la grande abilità nella lavorazione dei metalli, la gioia nella creazione di forme e il fatto che dalle sue opere emerga il suo essere, le sue ansie, la sua fragilità.

Fotografia gentilmente concessa da Giovanni Beato ritratto con Pericle Fazzini.
Giovanni Beato si è avvicinato alla pittura da piccolo quando il padre vendeva nella sua ferramenta pigmenti in barattoli, con i quali ha cominciato a dipingere. Dopo le medie, ha frequentato l’Istituto Statale d’Arte di Fermo, proseguendo gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Parlandomi di quegli anni, gli occhi e la voce non sono riusciti a celare nostalgia e orgoglio di un ragazzo alle prime armi, che partito da un piccolo paesino delle Marche, per il talento, subito riconosciuto, si ritrova catapultato nella Roma degli anni ’70, tra rinomati circoli letterari e artistici. In quegli anni diventa allievo prediletto di Pericle Fazzini, anch’egli marchigiano, e inizia a collaborare anche con altri nomi importanti come Nino Franchina. Si ritrova a conversare e trascorrere del tempo, tra mostre e vita quotidiana, con Gianfranco Baruchello, Gina Severini Franchina, Emilio Greco, Simona Marchini, Giuliano Gemma, Luchino Visconti e molti altri. Ha contatti con i giovani artisti della Scuola Romana e quella di Piazza del Popolo. Proprio a Roma ha l’enorme, secondo lui, e inaspettata occasione di fare la sua mostra al “ferro di cavallo”, in via Ripetta (Palazzo camerale). Nonostante non si sentisse all’altezza, come teneramente racconta, accoglie la sfida lanciatagli da Romeo Lucchese e supportato anche dal Fazzini, con i suoi primi pezzi, realizza un’esposizione dal notevole successo e alla quale hanno fatto visita figure eminenti della scena artistica e intellettuale dell’epoca. In questi anni è chiamato anche dal Fazzini a collaborare alla realizzazione del complesso scultoreo La Resurrezione sito nell’aula Pierluigi Nervi in Vaticano. Il completamento ha richiesto undici anni di lavoro costante e Giovanni la ricorda come una grande occasione, ma anche con molta sofferenza fisica causata dalla lavorazione dei materiali.

Giovanni Beato una pausa presso la fonderia di Massimo Del Chiaro, Pietrasanta, 1985.
In Giovanni Beato, Risorgenze sculture e pitture 1970-2004
Verso la fine degli anni ′70 ha trascorso alcuni anni a Firenze. Lì ha seguito un corso di Estetica Sperimentale con il Professor Carmelo Genovese e ha lavorato presso Ginori, famoso marchio italiano. Anche in questo soggiorno è entrato in contatto con persone non esattamente sconosciute nella sfera artistica, come Quinto Ghermandi e Gastone Breddo. Successivamente si è dedicato all’insegnamento, lavorando all’Istituto Climatico di Montecompatri (Roma), all’Accademia di Belle Arti di Viterbo con Aldo Caron, presso il Liceo Artistico di Porto San Giorgio (Fm) e all’Accademia di Belle Arti di Macerata. Nel chiedergli quale è stato il rapporto con i suoi studenti, non ha potuto nascondere una luce di nostalgia, sfociata in un brillante sorriso, che semplicemente ha risposto “amicizia e convivialità”. Come docente è indubbiamente riuscito a seminare negli animi di ragazzi e ragazze il suo amore travolgente per l’arte, tanto che mi ha raccontato di un suo allievo, che rimanendo in ambito artistico, sta riscuotendo molto successo a New York.

Giovanni Beato, La Rosa nera. Fotografia di Roberto Postacchini
L’arte di Giovanni Beato è stata definita da Enrico Crispolti come “metamorfosi strutturale”. Lui trasforma oggetti, anche i più semplici e comuni, unendoli e modellandoli al fine di dar forma a intuizioni, in un processo quasi ascetico. La sua creatività dà nuove voci al reale e reinterpreta il contemporaneo. La sua è un’arte “di linee, di curve e che tende all’astrazione”, come lui stesso ha dichiarato. Le produzioni non nascondono influenze futuriste, dadaiste, surrealiste e della Nuova Figurazione. Alcune di esse sono nate in relazione agli avvenimenti storici attuali, come La rosa nera, ideata allo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina. La trasformazione di una rosa che si incastona in una bomba, simbolo della guerra, perde vitalità e brillantezza e diventa nera. Il dialogo di forme, materiali e colori differenti, affonda le radici nelle terre che hanno visto crescere l’artista.

Dialogo, 1994, bronzo.
Da Giovanni Beato Risorgenze sculture e pitture 1970-2004
Giovanni Beato mi ha raccontato di quando da giovane, non avendo altro materiale a disposizione, recuperava il metallo dagli attrezzi agricoli. Oggi nulla è cambiato, continua a cercare e trovare materiali nelle ferriere locali e ama lavorare a stretto contatto con i concittadini, i quali finiscono per contribuire al processo di realizzazione.
Nell’osservare l’artista nel gesto creativo, si coglie il genio di chi riesce a immagine in poche gocce di caffè avanzato in una tazzina, come poter ottenere un volto femminile. Le linee delle sue opere sono quelle del Mare Adriatico, delle colline marchigiane e dei campi coltivati del territorio. Ho ritrovato questi elementi in un′opera ancora non terminata e che ho avuto l’occasione di vedere e fotografare in anteprima. L’opera senza nome raffigura “il cosmo e queste terre”, tra linee curve, rette e semicerchi, che si fondono in un nuova forma organica.

Prescultura, 2000, tecnica mista su tavola, 100 x 70 cm.
In Giovanni Beato. Risorgenze sculture e pitture 1970-2004
La mia conversazione con l’artista non è servita a rispondere a tutte le domande che mi portavo dentro, ma mi ha fatto piacevolmente immergere in questioni di cui non avevo tenuto conto. Parlare con lui mi ha mostrato che un’opera, solo apparentemente difficile da comprendere, nasconde estetica, carattere, grande abilità tecnica, ma anche studio, dedizione e coincidenze fortuite. Sono riuscita a cogliere che l’artista può realizzare un’opera per l’impulso di un momento, per un sentimento da esternare, per un messaggio specifico da trasmettere; una stessa opera che però, in fase di realizzazione o una volta terminata, può assumere infiniti significati differenti. Le opere sono un tutto organico di cui nemmeno l’artista ha la chiave per accedere alla conoscenza completa. Con Beato non ho ottenuto alcune risposte, perché forse erano sbagliate le domande che avevo in testa, troppo restrittive per racchiudere una vita che trova spazio in tutto ciò che le mani modellano, uno sguardo rivolto in avanti che coglie nel quotidiano la poesia e un uomo con le sue fragilità che trova nell’arte, con maestria, il suo modo di esprimersi.
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